Il manager turistico e CEO di Hotelbooking.com Carlo Crocicchia racconta l’attuale condizione dell’hôtellerie italiana in pillole.
Da febbraio ad oggi il comparto turistico, che vale il 13% del PIL nazionale, ha subito ingenti perdite a livello economico. Si parla di 6 miliardi di euro in meno solo da febbraio ad aprile.
“Finché la fobia e le difficoltà di movimento a costi accettabili lo impediranno, soprattutto per l’incoming dall’estero, è evidente che le città d’arte e le città d’affari soffriranno pesantemente”

 

 

 

 

 

 

Il percepito è stato ed è tutt’ora quello di un’incomunicabilità di base tra il settore turistico e i vertici dello Stato italiano, problematica imputabile anche all’assenza di un ente che rappresenti gli imprenditori turistici. L’ultima legge sul turismo – n.135- risale infatti al 29 marzo 2001, quando ancora le prenotazioni arrivavano tramite fax.
Quello di marzo è stato un periodo nero per la realtà alberghiera che ha visto un drastico calo delle prenotazioni a seguito del lockdown e della successiva dichiarazione dello stato di pandemia da parte dell’OMS.
Nonostante le recenti modifiche che hanno portato alla graduale riapertura delle regioni, secondo l’indagine condotta da Confturismo e SWG, il 35% degli italiani dichiara di essere più propenso a fare viaggi brevi nelle vicinanze di casa. Dato particolarmente indicativo in quanto lo scorso anno era solo il 14% a pensarla così. In molti casi il motivo è la paura di un secondo lockdown e di restare bloccati in quarantena in una regione diversa dalla propria con contestuale impossibilità a rientrare a casa.

Un italiano su cinque invece dichiara che in vacanza non ci andrà affatto, chi perché è stato costretto ad utilizzare le ferie durante la prima fase della quarantena, chi perché in cassaintegrazione e chi perché  teme di perdere il lavoro nei prossimi mesi e preferisce risparmiare.
Coloro che decidono di viaggiare privilegiano le località di mare e di montagna, mentre restano penalizzate le città d’arte e d’affari.
Certo è che, analizzando i dati, si sarebbe potuto fare di più per un settore che nel 2019 ha generato 17 miliardi di surplus.
Ne parliamo con Carlo Crocicchia, manager turistico e CEO di Hotelbooking.com

carlo-crocicchia-beyond-the-magazine

 

  1. Causa Covid-19 molte realtà produttive sono state costrette a chiudere per decreto mentre gli hotel sono stati esclusi dall’obbligo. Decisione che si è rivelata essere un paradosso in quanto mancava l’elemento essenziale del business alberghiero: l’ospite. Ritieni che si sarebbe potuto procedere diversamente?
    Gli hotel sono stati esclusi dal diktat della chiusura, di conseguenza è stata facoltà dei gestori decidere se restare aperti o meno. Chiaramente la maggior parte di loro ha optato per la chiusura, evitando così di pagare costi non produttivi. La questione ha riguardato oltre il 90% delle strutture, sono rimaste aperte solo quelle che avevano la consistente possibilità di avere ospiti legati al business travel o personale sanitario. Qualcuno ha cavalcato l’ipotesi del “Covid-19 hotel” per ospitare pazienti in quarantena.
    Per quanto mi riguarda sono molto critico nei confronti delle scelte politiche fatte: personalmente, piuttosto che “fermare il mondo” in lockdown avrei investito quanto occorreva per tenere in funzione, seppure gradualmente, tutte le attività, senza distinzioni, attuando un piano di diagnostica globale e facendo restare attivi solo gli accertati sani, provvedendo ad una sorta di passaporto sanitario.
    Invece non solo non si è fatta questa scelta, ma si è consentito ad un mondo di professionisti che non potevano essere fermati (sanità, sicurezza, trasporti, servizi essenziali) di operare pur senza avere consapevolezza del loro effettivo stato di salute.
  2. Quali sono stati i costi che le realtà alberghiere hanno dovuto sostenere nonostante la completa chiusura o l’inutilizzo della struttura stessa?
    Cercando di contenere quanto più possibile, le strutture hanno dovuto sostenere costi fissi, in particolare costi energetici e di locazione. Hanno cercato di limitare i costi delle risorse umane, mandando i lavoratori in ferie forzate o mettendoli in cassa integrazione quando possibile. Le perdite sono comunque più imputabili ai mancati ricavi, che sono stati cancellati in toto, mettendo in crisi il circuito virtuoso del flusso economico.
  1. I decreti hanno imposto alle strutture dei rigidi protocolli di sicurezza e di sanitizzazione per il contenimento del virus. Economicamente parlando, ci sono stati hotel che si sono trovati in difficoltà nel rispettarli? Sono arrivati aiuti da parte dello Stato?
    Sostanzialmente i costi sostenuti per la sanitizzazione e la messa in sicurezza non sono stati tali da mettere in particolare crisi i gestori anche perché in Italia il livello di pulizia e sanificazione è sempre stato molto alto. Vero è che nel corso del tempo le procedure e i protocolli trasmessi agli Ordini di categoria hanno subito talmente tante modifiche e smentite da rendere difficile comprendere quale fossero le regole corrette da seguire. Si pensi all’uso dell’ozono: ozono sì, ozono no, ozono forse… Gli aiuti? Più che altro sotto forma di crediti di imposta, di cui vedremo la reale efficacia.
  1. Per tutelare i lavoratori, sono stati previsti dei limiti ai licenziamenti. Dal 17 marzo al 16 maggio 2020 sono state vietate le procedure di licenziamento collettivo e sono state sospese quelle già avviate. In linea generale, il comparto alberghiero ha ricevuto fondi per continuare a remunerare il proprio personale nonostante non ci fossero entrate?
    Come linea generale sì, i licenziamenti sono stati bloccati. E’ altresì vero che in alcuni comparti si sono sfruttate le modalità consentite dalla legge come il fine prova o il mancato rinnovo dei contratti a termine.
    In generale la cassa integrazione ha permesso ai gestori di liberarsi del costo, ma la maggior parte non ha anticipato, per carenza di cash flow, gli emolumenti ai dipendenti, che hanno dovuto attendere i tempi dell’INPS.  Molti di loro stanno ancora aspettando.
  1. Con il decreto rilancio sono stati stanziati circa 4 miliardi di euro per sostenere il settore turistico, oltre al Fondo Turismo e ad altre iniziative. Quali di queste si sono rivelate effettivamente efficaci sul piano della ripresa?
    La formula scelta è chiaro indice di difficoltà dello Stato nel dare un contributo reale alle imprese: intanto i voucher sono un metodo quantomeno interlocutorio, complesso (mi risulta che, nel silenzio più totale, sia passata una modifica dei parametri di calcolo dell’ISEE molto importante) e nel momento di necessità di cassa, una soluzione più di facciata che di sostanza.
  1. Nonostante la possibilità di spostarsi tra regioni, i dati forniti da Confindustria sono chiari: solo il 25% delle strutture ha riaperto, il 50% delle quali è situata in località marittime. A tuo avviso, ci sono regioni in cui la ripresa del turismo sarà più celere? Perché?
    Che la situazione sia complessa e difficile mi pare ovvio: molte attività hanno subito un duro colpo per cui faticheranno a riprendersi. Altre, nate cavalcando un’idea imprenditoriale entusiastica ma priva di competenza gestionale, senza alcuno studio di fattibilità né alcun business plan, scompariranno. Molte di queste avrebbero chiuso comunque perché sbagliate nella strategia all’origine.
    Finché la fobia e le difficoltà di movimento a costi accettabili lo impediranno, soprattutto per l’incoming dall’estero, è evidente che le città d’arte e le città d’affari soffriranno pesantemente. La ripresa è delegata a quella fetta di domanda interna che sceglierà di restare in Italia. Il mare e la montagna, classiche destinazioni vacanziere estive, con numeri ridotti, si riprenderanno moderatamente perché, nell’accezione comune, in Italia i prezzi vengono percepiti come più alti rispetto ad altre destinazioni considerate più economiche. Vero ma fino ad un certo punto perché la scuola ricettiva italiana resta un emblema a livello planetario.